La cucina come espressione di identità e memoria.
Autentico uomo del Sud, profondo conoscitore della cultura gastronomica italiana e instancabile scopritore di talenti: è lui il nostro ambassador, in Italia e nel mondo.
Filippo, quali incontri hanno plasmato il tuo destino di Chef?
Il primo è stato quello con la mia terra e la famiglia. Nella mia casa il tempo è sempre stato scandito dalle attività che gravitavano intorno al cibo: le conserve da preparare in estate e in inverno, la scelta del maiale per i momenti di festa, oltre al fatto di dover mettere ogni giorno quindici persone a tavola. In un certo senso mia madre e i miei nonni hanno sempre gestito un piccolo ristorante domestico. Poi c’è stata la Marina da cui ho appreso l’importanza del rispetto per gli altri e la capacità di lavorare in team. Infine, è arrivato Gualtiero Marchesi.
Prima di quell’incontro avevo già fatto molto, eppure ne ero inconsapevole. Non sapevo cosa significasse davvero essere un cuoco. A lui devo la formazione tecnica che mi ha reso l’uomo che sono oggi.
Raccontaci i segreti del tuo istinto per le materie prime?
Possono essere riassunti in due parole: incontrare e ascoltare. Io vado direttamente a casa del produttore, mi siedo e lo lascio parlare. Voglio sapere tutto di lui: come ha iniziato e soprattutto perché. Devo vedere cosa mangiano i suoi animali o toccare con mano la terra in cui affondano le radici i suoi ortaggi. Se mi parla del “suo prodotto” come di “un prodotto”, non è la persona giusta. Se me ne parla come se fosse qualcuno di famiglia, allora so che entreremo in sintonia.
A quel punto posso assaggiare e iniziare a immaginare come far convivere i suoi sapori nella mia cucina.
Chi sono “gli ultimi eroi del territorio”?
Sono quei produttori capaci di sacrificare la logica della quantità e del profitto, in nome della qualità. Per questo si tratta anche di persone molto selettive: sono disposte ad affidarti l’unicità del loro prodotto solo se sentono che condividi la loro stessa filosofia. Senza questa empatia non ci può essere collaborazione.
Quali sono le caratteristiche di un’autentica “Italian food experience”?
Anzitutto, è un’esperienza non solo culinaria. Chi si siede alla mia tavola deve essere disposto a ritagliarsi del tempo di qualità: dimenticare per un momento la frenesia di ogni giorno e lasciarsi condurre alla scoperta dei veri sapori italiani. Un’esperienza di questo livello deve riconoscersi anche a prima vista, attraverso una mise en place capace di evocare quella tradizione di convivialità che tutto il mondo ci invidia.
Quale consiglio ripeti più spesso ai giovani talenti che lavorano con te?
Di non avere fretta. Spesso i giovani non sanno aspettare, ma per imparare serve tempo: bisogna ricoprire tutti i ruoli di cucina, nessuno escluso. Ogni passaggio saprà lasciarti qualcosa, anche perché il rispetto di una brigata si guadagna solamente lavorando insieme. Non bastano una giacca e un cappello a fare di te uno Chef.
In quale piatto ti identifichi?
Nel minestrone, perché rappresenta lo stare insieme. È un piatto fatto di equilibri: ortaggi e legumi devono riuscire a convivere in armonia, valorizzandosi a vicenda, senza che nessuno prevarichi sull’altro. Come in una brigata di cucina.
Amo la cucina perché fa stare bene la gente e perché mangiare è felicità